Contributo di
Benedetto Terracini
Sfide da raccogliere
Nell’estate del 1948 andavo
a casa di Renzo Tomatis, in via Sagliano
Micca, in bicicletta, a studiare istologia. Dopo la laurea, eravamo
ambedue all’istituto di Anatomia Patologica dell’Università
di Torino. Alla fine degli anni 50, siamo stati insieme all’unità
di cancerogenesi sperimentale della Chicago Medical School. In Anatomia
Patologica, io ero entrato come “volontario” un pò
prima di lui. Secondo le regole del tempo, avevo quindi più diritti
per avere un posto di assistente: così tornai in Italia nel 1960
senza preoccuparmi troppo del mio futuro scientifico. Le chance di Renzo
di trovare lavoro in una istituzione di ricerca in Italia erano poche
e lui non sarebbe tornato in Italia senza la garanzia di potere fare
ricerca. I suoi primi insuccessi per rientrare sono ben raccontati in
“Il laboratorio”. L’ultima frustrazione ebbe luogo
negli anni 80, quando presentò domanda a un concorso per un posto
di professore universitario di oncologia, domanda che decise di ritirare
dopo che gli venne garbatamente fatto notare che un candidato del suo
calibro avrebbe cozzato con decisioni già prese nei salotti baronali,
con conseguenze indicibili. Chissà se qualcuno si preoccuperà
mai di misurare il danno culturale causato dalla esclusione di Renzo
da parte dell’accademia italiana.
Secondo me, il maggiore successo scientifico di Renzo sono state le
Monografie IARC. Verso il 1970, nella sua qualità di responsabile
dell’Unità di Cancerogenesi Chimica, era tempestato di
richieste di elenchi di cancerogeni. Sindacati e industriali si illudevano
– per motivi diversi – di potersi muovere su un terreno
sicuro in tema di rischi di cancro professionale. Per i governi, poi,
scaricare qualsiasi responsabilità per il controllo dei rischi
lavorativi su un organismo internazionale era un invito a nozze. Renzo
capi immediatamente quanto equivoche sarebbe stata una “lista
nera” avallata da un organismo come lo IARC. L’alternativa
era una elaborazione responsabile delle osservazioni scientifiche (precorrendo
l’attualmente tanto decantata “evidenza”). Ma Renzo
capi altre due cose che allora erano rivoluzionarie: una valutazione
dei dati scientifici sottintendeva interdisciplinarietà del gruppo
di lavoro e il gruppo di lavoro doveva spiegare il proprio ragionamento
in modo trasparente, facendolo capire anche ai non scienziati. La composizione
e il modo di lavorare del gruppo di lavoro sono stati cruciali per la
credibilità delle monografie (soltanto dopo l’uscita di
scena di Renzo in ambiente OMS ci si è posti il problema di verificare
i conflitti di interesse dei membri dei vari gruppi di lavoro).
In tema di rischi di cancro, Renzo lascia due sfide a chi vuole raccoglierne
l’eredità. Uno riguarda i “possibili” cancerogeni
presenti nell’ambiente di lavoro, che (diversamente dai “probabili”
e dai “certi) ” non sono oggetto di regolamentazione, né
nella Unione Europea né altrove. L’incertezza retrostante
l’aggettivo “possibile” talora riflette contraddizioni
biologiche difficili da comprendere. Ma molto spesso, l’incertezza
deriva dai limiti degli studi epidemiologici, che a loro volta derivano
dalla scarsa disponibilità delle aziende: povertà dei
database, carenza di misurazioni ambientali e soprattutto riluttanza
a collaborare, nel timori che le ricerche svelino chissà quali
responsabilità.
L’altra sfida, più sottile, vuole superare l’abitudine
di concentrarsi su un agente per volta. Nei luoghi di lavoro, le circostanze
sono cambiate: da esposizioni massicce a poche sostanze si è
passati a esposizioni contenute a molti agenti. Per la maggior parte
di questi, della nocività se ne sa assai poco. Ancora di meno
si sa sulla possibilità che interagiscano tra di loro. A fronte
degli algoritmi tradizionali per misurare la nocività di ciascun
agente sono quindi necessarie strategie precauzionali nuove, alla cui
definizione sono chiamati gli epidemiologi di tutto il mondo.
Benedetto
Terracini, direttore di Epidemiologia & Prevenzione
NotizAIE n. 20