Contributo di Franco Berrino

Tomatis e l'IARC

Ho conosciuto Renzo Tomatis nel 1969, quando sono andato a trovarlo a Lione per cercare lavoro all’Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro (IARC), che aveva appena iniziato a funzionare. Ero appena laureato, ero antimilitarista, era appena uscita la legge Moro che istituiva il servizio civile e sembrava che sarebbe stato possibile sostituire il servizio militare con un periodo di lavoro in paesi in via di sviluppo. Cercavo quindi lavoro in un paese povero e Benedetto Terracini mi aveva consigliato di chiedere a Renzo, perché l’IARC stava appunto iniziando progetti di ricerca sul cancro in paesi asiatici ed africani. Mi aveva dato un appuntamento alle nove del mattino, in Avenue Marechal Foch, dove si era installata provvisoriamente l’Agenzia prima della costruzione del grattacielo in Cours Albert Thomas. Lungo viaggio con la 500 attraverso il Moncenisio, accompagnato da mio fratello grande. Fatica per trovare l’albergo che ci aveva consigliato, in centro a Lione, il ‘Grand Hotel de Russie’, uno degli hotel convenzionati con l’Agenzia, dove poi tornai spesso. Sapevo ben poco di Renzo. Non avevo ancora letto “Il laboratorio”.

Incontrai questa persona fine e gentile che mi parve solidale con l’ideale antimilitarista (anni dopo lo avrei sentito più volte commentare, parlando del mito della limitatezza delle risorse, che costa più l’ala di un aereo da guerra che il bilancio annuale dell’IARC). Mi parlò della missione dell’Agenzia, di come vi era giunto (aveva mandato il suo curriculum vitae dopo aver letto l’annuncio su Science), della priorità della prevenzione, dei suoi laboratori, che allora erano in un prefabbricato nella zona dove poi sarebbe sorto il grattacielo, del suo grande progetto, le Monografie sul rischio cancerogeno per l’uomo delle sostanze chimiche. Iniziò a parlarmi in inglese, per assicurarsi che fossi all’altezza, ma poi continuammo in italiano. Mi presentò a Guy de Thé, il grande virologo, che cercava un giovane ricercatore per il suo progetto sul cancro del rinofaringe nel sud-est asiatico, un personaggio che mi parve egocentrico e tronfio, che parlò quasi sempre lui, in fretta perché non aveva certo tempo da perdere, e che si liberò rapidamente di me dicendo che in realtà aveva bisogno di qualcuno che parlasse correttamente il cantonese.

Un po’ deluso di quel primo fallimento, tornai da Renzo, che mi accompagnò a conoscere gli altri grandi dell’Agenzia, Calum Muir, il direttore dell’Unità di Epidemiologia, che avrebbe poi gestito il programma sull’incidenza del cancro in 5 continenti, che considerò con interesse la mia tesi di laurea, dandomi buoni suggerimenti per farne alcune pubblicazioni, i ricercatori che indagavano sul cancro dell’esofago in Iran, con grandi dovizie di mezzi, uomini e Land Rover, un po’ troppo presi dalla grandezza del loro progetto, e Albert Tuyns, un belga che aveva collaborato a realizzare il primo volume del Cancer Incidence in Five Continents, e che stava iniziando uno studio sul cancro del fegato in Africa Occidentale. Si trattava di esaminare decine di migliaia di persone nei villaggi della Costa d’Avorio con il test dell’alfa-1-fetoproteina, per identificare i portatori di cancro del fegato, e di studiarne la relazione con un marker di epatite virale (l’antigene ‘Australia’) e con la contaminazione dei cibi da aflatossina. Occorreva un giovane ricercatore che lavorasse sul campo, ma bisognava saper parlare francese. Dissi che non c’era problema, che nel volgere di due-tre mesi avrei saputo parlare francese. Dopo tre mesi fui assunto e partii per l’Africa. Iniziò così la mia collaborazione con l’IARC, che doveva poi durare 30 anni su altri progetti, e che mi diede numerose occasioni di incontrare Renzo Tomatis e di confrontarmi con lui sulle cose della scienza e della vita. Prima di partire conobbi anche Nick Day, un giovane statistico inglese da cui ci si aspettava un ruolo di servizio, ma già si capiva che avrebbe fatto grande l’Agenzia più di molti altri. Conobbi anche il direttore, John Higginson, un patologo che aveva promosso un registro dei tumori in Sud Africa, che mi ricevette stendendo le sue lunghe gambe sulla scrivania, mostrandomi le suole sporche. Mi regalò un libro di patologia tropicale che mi fu poi molto utile sul campo.

Le mie relazioni con Renzo si intensificarono a metà degli anni ’70, quando Veronesi decise di attivare un’Unità di Epidemiologia all’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano (INT), e Renzo sembrava interessato a tornare in Italia per dirigerla. Lui avrebbe voluto però che si allestissero anche nuovi laboratori di cancerogenesi, perché la sua relazione con l’epidemiologia era fin da allora ambivalente: la ricerca di conferme sull’uomo dell’effetto cancerogeno di sostanze chimiche la cui cancerogenicità è già stata dimostrata sull’animale non deve ritardare gli interventi di prevenzione primaria. L’epidemiologia, inoltre, ha troppo scarsa sensibilità per riconoscere piccoli eccessi di rischio, perché la definizione delle esposizioni ambientali e professionali è sempre grossolana, e piccoli rischi scompaiono nel rumore di fondo. La base etica del suo programma delle Monografie era che in assenza di dati umani adeguati è ragionevole e prudente considerare le sostanze per cui esiste una sufficiente prova sperimentale di cancerogenicità come se fossero cancerogene per l’uomo.

Io sentivo dentro di me che non sarebbe mai venuto a Milano e che lasciava che si pensasse che sarebbe venuto per darmi il tempo di iniziare l’attività con un suo sostegno a distanza. Poi avvenne Seveso, una non piccola rivoluzione nella mia vita, che mi diede l’opportunità di conoscerlo meglio perché mi invitò per alcune riunioni e per un breve periodo di lavoro a Lione per preparare la monografia sui fenossiacidi e le diossine. Colsi l’occasione per inimicarmi baroni e baronetti della medicina e della politica italiana, ma avevo il forte sentimento di essere dalla parte giusta. Poi lui divenne direttore dell’IARC, ma la sua impronta rimase nei primi programmi di ricerca dell’Unità di epidemiologia dell’INT, soprattutto per gli studi sui rischi occupazionali e ambientali, che ora continuano per opera di Paolo Crosignani. Ci incontravamo saltuariamente in quegli anni, per un caffè o per una cena. Era un uomo di grande sensibilità, e per lui ogni incontro era l’occasione per una riflessione etica sulla ricerca. Si parlava spesso della questione della specificità di specie delle sostanze cancerogene: alcune hanno uno spettro di cancerogenicità molto ampio, altre sono cancerogene solo per una o poche specie animali. Anche fra le sostanze riconosciute cancerogene per l’uomo ce n’erano due che non sembravano causare tumori negli animali di laboratorio: l’arsenico e l’alcol etilico. Per l’arsenico poi comparvero esperimenti positivi, ma non per l’alcol. D’altro canto anche nell’uomo sarebbe stato ben difficile accorgersi della cancerogenicità delle bevande alcoliche se non ci fosse stato il tabacco, che ne potenzia l’effetto. Si parlava molto delle forze economiche, politiche e mediatiche che condizionano la ricerca, ma mi insegnò anche a fare il pane nel forno di casa. Le monografie erano state un grande successo, ma proprio per questo cominciavano a dare fastidio. Lo scontro maggiore avvenne per il nickel, la cui classificazione come cancerogeno di classe A generò pressioni molto pesanti da parte dell’indu! stria e dei governi. Intanto l’Agenzia cominciava ad occuparsi dei rischi dei lavoratori delle centrali nucleari, studi potenzialmente molto robusti perché l’esposizione dei singoli lavoratori era misurata con precisione, ma che richiedevano la collaborazione di molte centrali per ottenere una potenza statistica ragionevole, e molte centrali fecero un’opposizione feroce. Renzo si fece un nome di ‘nemico’ dell’industria, che gli creò non pochi problemi per la rielezione, fortemente osteggiata in particolare dagli Stati Uniti.

Fu rieletto ma il secondo mandato fu molto più sofferto, anche per restrizioni finanziarie che gli imposero scelte difficili. Una delle più gravi fu il taglio dell’Unità di biostatistica. Con la partenza di Nick Day, Renzo non ebbe la possibilità, o la capacità, di investire per mantenere il prestigio che l’agenzia aveva raggiunto in questo campo. Una decisione difficile fu anche quella di ripulire dall’amianto il grattacielo IARC, che come molti edifici degli anni sessanta era stato costruito con amianto nonostante già se ne conoscesse la cancerogenicità. La contraddizione gli pareva insostenibile. L’esposizione dei lavoratori dell’Agenzia era verosimilmente molto bassa, ma scelse in base al principio di precauzione coerentemente con quanto aveva sempre sostenuto. Ed è proprio sulla contraddizione che vorrei concludere questa nota su Renzo Tomatis, la contraddizione che a ben guardare segna molti aspetti della nostra vita di ricercatori, e su cui troppo spesso non abbiamo voglia di interrogarci. Se ripenso alla mia vita professionale riconosco occasioni in cui avrei dovuto essere più determinato nel non accettare soprusi, oppormi o almeno esprimere il mio dissenso verso scelte sciagurate delle istituzioni con cui mi sono trovato a lavorare e che non ho fatto per mancanza di coraggio, o per sfinimento, o per non danneggiare i miei collaboratori più giovani. Cogliamo l’occasione dell’insegnamento di Renzo Tomatis per vigilare che le nostre scelte future siano meno condizionate, e meno pusillanimi, e che la nostra passione per la scienza non ci faccia accettare compromessi e dimenticare obblighi verso la società. Il periodo dell’IARC sotto la direzione di Tomatis sarà ricordato come quello più fecondo: oltre alle Monografie, e al Cancer Incidence in Five Continents, fu il periodo del coordinamento delle più importanti collaborazioni internazionali sui rischi occupazionali (sotto la direzione di Rodolfo Saracci), da radiazioni (Nick Day e Jacques Estève), da bevande alcoliche (Albert Tuyns), da virus del papilloma umano (Nubia Munoz), sulla valutazione dell’efficacia degli screening (Nick Day), la progettazione della banca dati delle mutazioni di p53 (Ruggero Montesano), e inoltre la ripresa della ricerca sul cancro del fegato in Africa, con il progetto di vaccinazione per l’epatite B in Gambia, e per ultimo l’inizio del progetto EPIC (European Prospective Investigation into Cancer and nutrition) il più grande studio prospettico con banca di campioni biologici mai intrapreso nel mondo (Elio Riboli).

La direzione successiva privilegiò piuttosto la competizione rispetto alla collaborazione internazionale, cominciarono ‘rumori’ di compromessa indipendenza dall’industria, e la direzione attuale è molto criticata per aver compromesso il suo ruolo istituzionale di promozione internazionale della ricerca allontanando ricercatori di prestigio che hanno fatto grande l’Agenzia e rifiutando collaborazioni a progetti di cui non ha il controllo. L’IARC non ci sembra più quel punto di riferimento al di sopra delle parti che abbiamo amato ai tempi di Renzo. Ci incontrammo un’ultima volta nel Novembre scorso a Palermo, con Delia e Jo, per il convegno delle Amazzoni, pranzammo alla focacceria San Franceso, e andammo ad ammirare insieme l’Annunciata di Antonello.

Franco Berrino